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domenica 13 gennaio 2013

THE MASTER (2012) by Paul Thomas Anderson

 
Presentato alla 69° edizione del Festival del Cinema di Venezia, “The Master” è finalmente uscito a Gennaio 2013 nelle sale italiane.
Finora coloro che non lo avevano visto in anteprima a Venezia avevano accettato l'idea generale che il contenuto della trama si sviluppasse intorno alla figura di Ron Hubbard, il fondatore di Scientology. Contrariamente, Anderson usa questo contesto solo per mostrare ciò che più gli interessa: la complessità della psiche e dei rapporti umani.
Il quadro ha come sfondo gli albori della America Moderna, dove il giovane marinaio Freddie Quell vaga come un cane randagio, portandosi dietro le ferite – esteriori e interiori – che la guerra gli ha provocato.
Il suo volto è scalfito, il suo passo è claudicante, la sua mente toccata dalla pazzia, dove la violenza è l'unico modo di comunicazione con gli altri esseri umani. Siamo nell'America post-bellica, ma il ritratto di Freddie assume le forme di un povero errante durante il Medioevo.
Per caso si imbatte in Lancaster Dodd, ideatore e Maestro di una nuova forma di auto-medicazione delle menti, una sorta di spiritualità fatta in casa, dove ipnosi e discesa nell'inconscio sono i mezzi per portare alla luce ed espurgare tutti i mali incatenati da secoli durante le varie reincarnazioni.
Il Maestro, dotato di una speciale capacità di fascinazione, si interessa parimenti a Freddie, prendendolo sotto la sua ala protettiva e facendone diventare il suo Allievo.
Pervaso di un angosciante disagio, dovuto principalmente alla lacerante performance di Joaquin Phoenix, “The Master” illustra tutta la complessità dei rapporti umani, tra maestri ed alunni, padri e figli, mariti e mogli, indicando quanto crudele può essere il mondo se non si dispone di un proprio fermo pensiero.
Il venditore di religione è il gigionesco, magistrale e immenso Philip Seymour Hoffman, magnetico con i deboli e debole con la più forte, incisiva, moglie interpretata da Amy Adams, la quale aggiunge una straordinaria durezza e ambiguità al suo dolce volto di bambola.

Paul Thomas Anderson confeziona un'opera spledida, dura e difficile, che finora ha diviso pubblico e critica.
Aspettando il responso – non sempre corretto – dell'Accademy, auguro
Buona Visione

sabato 10 novembre 2012

THE HOLIDAY - by Nancy Meyers

 
Jude Law non sa recitare.  Non è una affermazione soggettiva, è un dato di fatto
Il che comunque non esonera l’attore da essere un gran bel pezzo di maschio ed è forse questa l’unica ragione per cui è buona regola permettergli di continuare la sua carriera, dandoci l’occasione di assistere ad una proiezione dove almeno c’è qualcosa da vedere
Ieri sera ho visto “The Holiday” meglio conosciuto in Italia con il titolo idiota “L’amore non va in vacanza”.
In un Paese in cui è uso sciacquarsi la bocca con parole anglofone di cui forse solo una minima percentuale ne conosce il reale significato, sembra assurdo assistere allo smembramento dei titoli originali delle pellicole per tradurli necessariamente in Italiano, un italiano che talvolta fa veramente pena.
Il primo approccio con i film di Nancy Meyers è sempre controverso. La regista americana non riesce mai ad affascinarmi alla prima visione delle sue pellicole, lasciando comunque una porta aperta sulla seconda che usualmente avviene l’anno successivo, in DVD.
Erede e “sorella” decisamente minore della Grande e compianta Nora Ephron, Nancy Meyers ci offre quanto di meglio quando, stanchi o stressati, ricerchiamo nelle nostre videoteche un prodotto carino, ben confezionato, abbastanza brillante e di poco impegno. Il lieto fine è ovviamente d’obbligo.
La regista/sceeggiatrice ci offre tutto questo ed è bravissima a farlo: buon cast di attori, storie ambientate in posti idilliaci, sceneggiature abbastanza soddisfacenti e, soprattutto, case da sogno.
La casa. Immensa, luminosa, modernamente arredata, perfettamente pulita, come se l’avessero appena scartata dall’involucro che la avvolgeva.
Insieme a questo grande punto di forza, in “The Holiday”, dicevo, c’è anche Jude Law
 che compete con la casa in quanto ladro di sguardi.
Per fortuna le componenti femminili, Cameron Diaz e Kate Winslet, riescono a recitare – scontato dire chi recita meglio tra le due – e il film prende forma.

Ascoltando i dialoghi ci rendiamo però conto che il confronto Meyers-Ephron non ha scopo di esistere
Se la seconda riusciva nella perfetta armonia tra semplici battute e profondi dialoghi, la Meyers arriva a creare un paio di situazioni comiche in due ore, contornando il resto del film con dialoghi banali e storie fini a se stesse e prive di conclusioni
In “The Holiday” è buona la trovata del trailer che ritorna sempre nella mente della Diaz ad ogni situazione di crisi, la buffa “conference-call” tra Diaz-Law e Winslet, e la battuta, forse la migliore del film, con cui la bambina apostrofa la Diaz elegantemente vestita “Sembri la mia Barbie”
Per il resto è tutto un mix di trovate poco concrete, di cui già il primo accenno si può notare quando le donne, chattando per accordarsi sullo scambio casa, passano sul piano personale e l’americana chiede all’inglese quanti uomini ci fossero nel sua cittadina. Risposta: “Zero”.
Mi permetto di far riferimento all’incipit di questo scritto. Bene, considerato questo è ovvio pensare che quando la Diaz apre la porta forse all’unico uomo in circolazione se lo accaparra.
La risposta “Zero” non era certo appropriata dato che dopo qualche ora i due si ritrovano a fare all’amore. E non siamo nemmeno a metà film
Oltre ad altri buchi narrativi, la storia termina in maniera abbastanza ambigua. Ok, è l’Ultimo dell’Anno e tutti si ritrovano in Inghilterra felici e contenti a ballare e brindare. Ok, per ora è vacanza e dopo?
Il tema della distanza geografica era stato già stato giustamente toccato dai protagonisti che, consci del loro triste destino e incapaci di compiere un vero trasloco a causa dei legami familiari e lavorativi, dopo la vacanza dovranno dirsi definitivamente addio

Invece no (?). Non è chiaro se i due americani si trasferiranno in Inghilterra o se al contrario i fratelli anglosassoni si trasferiranno in California. Il film termina con un brindisi, forse alla speranza di restare uniti ma il dubbio rimane e la storia non è conclusa anche se lo sembra.
La vacanza è stata allungata, come il brodo per formare la storia
Da usare per una serata con il mal di testa: non prendete un cachet, prendete il DVD di “The Holiday”. E’ meno invasivo e potete guardare Jude Law

Buona visione




domenica 23 settembre 2012

THE AVENGERS

Solitamente soffro di insonnia, anche se questo è un buon periodo.
Devo sempre ricorrere ad un aiuto farmacologico, altrimenti non riuscirei a prendere sonno o a dormire tranquillamente per tutta la notte. E' una caratteristica che mi accompagna oramai da anni. Talvolta passavo (e passo ancora) notti completamente bianche. 
Se l'umore è buono, niente di meglio che vedere un paio di film durante la notte. E' il momento magico: il buio immenso e placido, qualche sordo rumore in lontananza, il fascino di una pellicola che sembra creata proprio per quella notte, una privilegiata proiezione privata durante uno spazio temporale che l'inconscio non ha voluto rubare per i suoi voli notturni.
Ieri sera ho visto THE AVENGERS in DVD. Noleggiato. Che gran culo non aver speso 10 euro per la visione in 3D.
Non ero così convinta per andare a vederlo al cinema, alla sua uscita in DVD mio marito lo ha rincorso per settimane finché ieri, al modico prezzo di 2 euro (causa prenotazione, altrimenti solo 1 euro), siamo riusciti a vederlo.
Per la seconda volta, lui. Per la prima volta, io.
Credo di aver sentito parlare di “The Avengers” già a partire dagli inizi dell'anno scorso o forse poco prima. Mesi di pre-recensioni, video-clips, fotografie, una grande attesa, un gran frastuono mediatico per un film che vale forse meno di un episodio di “Un medico in famiglia” (mai visto e nemmeno ci tengo).
Non sempre le pellicole riescono, non sempre scriviamo buone recensioni, non sempre facciamo bene il nostro lavoro. Non tutti i giorni sono uguali, non sempre disponiamo di quella energia e ispirazione necessaria per mettere in pratica la parte migliore di noi. Di questo ne dobbiamo prendere atto, nessuno di noi escluso, e fino a qui nessuna obiezione.
Ma in questo caso non parliamo di un film malato, di una storia che poteva essere trattata diversamente, carente nella sceneggiatura o con una pessima direzione degli attori.
Stavolta parliamo di un prodotto creato – come tanti altri – a tavolino, con l'unico scopo di farne uno dei più grandi incassi dell'anno o del decennio.
Ecco la storia: un gruppo di supereroi vengono riuniti per sconfiggere una minaccia aliena. Prima si detestano, litigano tra loro - tanto che pensiamo a cosa serve il cattivo – poi si riuniscono per la grande battaglia finale. E vincono. Che Storia.
Mi domando quanto abbia faticato lo sceneggiatore. A mio avviso ha scritto il brogliaccio mentre cercava ispirazione sul water del suo bagno dopo una indigestione domenicale. Spezziamo una lancia dicendo che, per fortuna, la grande attesa non era rivolta all'intreccio, ma ai suoi componenti. 
“The Avengeres” riparte infatti da dove “Iron Man 2” finiva, così ritroviamo la morbida Scarlett Johannson (forse la migliore del gruppo) avvolta nella sua tuta nera, che scalcia e lotta come una matta nei suoi splendidi 160 cm di altezza (o poco più..); un'apparizione di qualche minuto di Pepper, colei che era la intransigente e precisa assistente tutto-fare di Iron Man. L'assistente incarnata deliziosamente da Gwyneth Paltrow in un perfetto stile britannico, diventa qui una comparsa totalmente inutile, vestita con shorts di jeans e camicetta, che vaga sfarfallando per l'ufficio a piedi scalzi e con un flûte di champagne in mano. Binomio perfetto di banalità e futilità.
Successivamente abbiamo Capitan America con la sua tuta decisamente troppo antiquata e la sua capacità recitativa pari a quella di un mattone, tanto che fa ridere – non nel senso migliore - ogni volta che appare; abbiamo il nuovo divo Jeremy Renner (adesso nelle sale con “The Bourne Legacy” e ovunque sulle riviste di cinema) e il suo Occhio di Falco innamorato della morbida spia russa; lo shakespiriano Thor in lotta con il fratello adottivo, brutta fotocopia di una figura malvagia vista e rivista da anni.
Ritroviamo anche una nuova versione di Hulk, con un Mark Ruffalo in bilico tra timidezza e follia, traspirante di un nervosismo totalmente estraneo sia all'imponente e splendido corpo del primo essere creato da Eric Bana, che al secondo triste e tormentato Dott Banner incarnato da Edward Norton.
Infine la ragione del film, il faro che attrae e riunisce tutte le navi al molo: il sarcastico Robert Downey J, che con i suoi occhioni neri, le sue battutine che sanno di aria fritta e la sua gigioneria è oramai diventato schiavo del personaggio che lo ha fatto resuscitare dopo anni di profonda crisi, Iron Man. Ma si può veramente ridurre un magnifico attore a questi livelli? Non nascondo di aver gustato i due precedenti Iron Man, ma questa pellicola sembra un prodotto venduto nei supermercati di basso costo: brutto alla vista e qualitativamente orrendo. Passo per gli altri, ma un attore con queste magnifiche qualità recitative, a mio avviso, merita molto di più di un eroe di latta rossa con la musica a tutto volume nel casco.

Solitamente soffro di insonnia ma “The Avengers” è un ottimo sonnifero, un prodotto “da banco” da vendere anche negli scaffali dei supermarket dedicati alle cure “fai-da-te”.

Buona – non – visione


domenica 29 luglio 2012

CONVERSATIONS WITH SCORSESE By Richard Schickel (2011)

Che siate più o meno appassionati del cinema di Martin Scorsese, voraci lettori di manuali e testi sul mondo del cinema o sporadici consultatori di riviste o libri, consiglio caldamente la lettura di questo libro in cui il regista americano riversa tutta la sua immensa passione per i film

Potremmo pensare che libri come questo vengano fatti con lo stampino, un libro-un regista, il quale risponde sempre alle stesse domande in maniera quasi automatica e noiosa.
In questo caso l’intervistatore è Richard Schickel, grande storico e critico cinematografico che apre con Scorsese un confronto alla pari, una lunga, appassionante conversazione che spazia oltre i confini della filmografia del regista per tracciare una visione a 360 ° sul cinema, sulle persone che lo compongono, sui film che ne hanno formato la storia.

Scorsese trasmette fortemente al lettore la sua genuina e vorace cinefilia, tanto da trascinarlo alla curiosa necessità di dover prendere visione dei film citati, anche se a volte questi non rispecchiano i gusti della nostra generazione, né riescono a mantenere una modernità richiesta a due ore di spettacolo.
Scorsese chiarisce fermamente che si può trarre nutrimento anche da un’ opera non riuscita, o da una pellicola di serie B. Possono esserci idee, tecniche, contesti narrativi dai quali è possibile trarre uno spunto, una soluzione per far procedere il film che stiamo realizzando o semplicemente chiarire e ampliare una conoscenza cinematografica che credevamo già satura.

Nella sua grande abilità registica, Scorsese mantiene un profilo umile e critico verso una filmografia che comprende opere di primissimo livello e un paio di capolavori assoluti (“Goodfellas” e “L’età dell’Innocenza”, ma sul secondo lascio a voi la personale scelta fra altri. Sul primo non si discute), riversando ai suoi collaboratori e mentori una parte di merito per i suoi successi.

Il libro è un piacere per gli occhi, come i piani sequenza di “Quei bravi ragazzi”/”Goodfellas”, un universo di parole che non ci stancheremmo mai di leggere. 
Ma come tutte le belle cose, dopo 485 pagine, trova la sua fine.

Buona lettura

domenica 22 luglio 2012

THE HELP (2011) By Tate Taylor


Era stato acclamato agli Oscar. 
Era un film della scorsa stagione cinematografica che al solito avevo perduto per totale mancanza di tempo ed energia.
Le serate estive, oltre ad essere appunto estive (luce, aria fresca, ritrovi tra amici), hanno un altro grande vantaggio: il recupero dei film perduti al cinema e visibili in DVD.
Riconosco che non è la stessa visione, ma almeno con il recupero è possibile riconnettersi con il mondo cinematografico ed avere una conoscenza più vasta delle pellicole uscite durante i mesi passati.
Due sabati fa sono stata tentata dall’ultima commedia con Ben Stiller “Tower Heist – Colpo ad alto livello”. Non adoro Ben Stiller, non mi piace la sua comicità forzata e eccessiva da “Tutti pazzi per Mary” alla saga di “Ti presento i miei”. La sua comicità ebrea e furbetta mi lascia totalmente indifferente, mi annoia. In questo ultimo film Stiller è tuttavia maturato, diciamo pure invecchiato, trasformandosi in un serioso personaggio dall’aria intellettuale e contenuta. Film godibile, ottimo cast, storia divertente e non del tutto scontata. Da vedere. 

Poi è stata la volta di “The Help”. Ne avevano parlato molto in occasione dei Golden Globe e dell’Oscar. Pensavo che fosse la solita pellicola buonista, con la scena della torta (l’unica che era palesemente trapelata anche a chi non aveva visto il film) come climax e un candido e lieto fine.
Mi sbagliavo, come tante altre volte.
L’immenso Eric Rohmer diceva che non occorre vedere migliaia di film per ottenere una buona cultura cinematografica. Ne bastano pochi e selezionati. Forse poteva dirci come fare, dall’alto della sua grande intelligenza, per selezionare le pellicole degne di visione. Forse esiste una via di mezzo tra la famelica cinefilia di Scorsese e la selezione presuntuosa di Rohmer. Forse bisogna basarsi sul proprio istinto personale e lasciarsi andare.
Ieri sera ho visto “The Help” e devo dire che film come questo non passano molto spesso al cinema. 
In questo caso non parlerei di regia, né di tecnica cinematografica a me tanto cara. No, in questa pellicola conta la storia e i personaggi che ne fanno parte. Ambientato nello Stato del Mississippi, agli inizi degli anni ’60, la storia narra delle vicende di famiglie bianche e delle loro cameriere di colore.
L’America degli anni d’oro qui descritta assume una forma del tutto diversa da quella sempre sognata da coloro che come noi abitano oltre Oceano. 
Le vicende dei personaggi,  bianchi e neri che siano, sono tutt’altro che felici e rosee, poeticamente toccanti ma senza sfociare nel pietismo forzato. Le leggi razziali degli Stati del Sud vengono pesantemente condannate oggi, ma sembra assurdo pensare che questi eventi accadevano poco più di 50 anni fa in un Grande Paese che aveva liberato parte del mondo Occidentale dalla minaccia nazista e dai loro spietati crimini e discriminazioni. 
Il Grande Paese delle libertà e delle opportunità che aveva accolto anche noi, immigrati italiani, riversava le stesse discriminazioni sulla popolazione di colore, considerandoli esseri umani di livello inferiore. 
“The Help” è un racconto sicero e diretto, descrizione affascinante e coinvolgente di una America ben poco idilliaca rispetto a quella  dei nostri sogni. Interpretato da una Emma Stone fortunatamente sottotono e da un cast di colore di immensa bravura (meritatissimo l'Oscar a Octavia Spencer), con una Sissy Spacek come unico elemento di leggera ilarità, necessario per interrompere e smorzare i drammi che la circondano. 
"The Help" è una storia di lotte e sofferenze e di quanto sia ingiusta e triste la vita. Ma come ogni buon film americano che si rispetti, alla fine giunge sempre la morale che questa vita vale fino all’ultimo attimo di essere vissuta e combattuta per ogni ideale, ogni valore che possa migliorare in senso universale questo nostro Grande Paese.
Buona imperdibile visione

lunedì 21 maggio 2012

MOONRISE KINGDOM

MOONRISE KINGDOM
di Wes Anderson


Una rivista francese questo mese titola l'articolo contenente l'intervista al giovane regista texano Le Conte D'Anderson” (La favola di Anderson)
La pellicola di apertura del 65esimo Festival di Cannes concentra infatti, nella sua durata di poco superiore a 90 minuti, tutti gli elementi tipici della Favola.
C'è un narratore, con il compito di fare luce (in ogni senso) sugli avvenimenti in corso; ci sono la bella e il suo principe kaki, non azzurro, 12enni ribelli e fuori dal coro, che scappano dal proprio gruppo di appartenenza (famiglia e scout) per stare insieme e sposarsi; ci sono 4 adulti inabili ad essere tali, malinconici e vuoti caratterialmente e, come ogni favola che si rispetti, c'è la strega cattiva.
Le favole originali, non trasformate dalla fervida fantasia disneyana, sono realmente violente, crudeli, tristi. Wes Anderson non ne modifica il concetto e realizza una storia angosciante e poetica allo stesso tempo.
In apertura del Festival Anderson ha dichiarato di essersi ispirato ad un grande regista del cinema francese, un esperto nella direzione dei bambini e nel raccontare storie di amore: François Truffaut.
Più che un'ispirazione qui siamo di fronte ad una trasposizione esatta dell'infanzia di Truffaut stesso (poi riportata a grandi linee da quest'ultimo ne I 400 colpi): amore per i libri, rifiuto della famiglia, ribellione, riformatorio, amore non corrisposto.
Anderson modella perfettamente i dolci colori di Renoir (Jean regista o Pierre-August pittore – a voi la scelta) con l'infanzia sfortunata di due ragazzini abitanti in un'isola del New England.
Il film si apre con un piano sequenza da manuale, una dolce carrellata che danza davanti ad una casa aperta verticalmente (idea fuorviante di essere in una casa delle bambole) per descriverci visivamente e minuziosamente la famiglia di Suzy. Dopo questo magnifico piano, Anderson decide di rimanere per il resto del film (o quasi) su una regia per la maggior parte invisibile, sacrificata per dare spazio a ciò che veramente conta nel racconto: i bambini.
La ragazza, Suzy, come da tradizione truffautiana, è caratterialmente più forte, violenta e matura del ragazzo. Porta con sé elementi “magici” come la valigia dei sogni e un binocolo. Suzy ricorda anche la Wendy di Peter Pan, con i bambini sperduti che ascoltano con attenzione la lettura delle storie fantastiche narrate nei libri che porta all'interno della valigia (appunto, valigia dei “sogni”). E ricorda anche Amélie Poulain, con quell'aria di ragazzina ordinata e carina, i grandi occhioni e un paio di forbici che, in questo caso, fanno la differenza con la dolce e naïve eroina francese...
Sam è un ragazzo che non si identifica con gli altri compagni e che crescerà indossando sempre una uniforme, ma è il solo personaggio del film che pone direttamente quella domanda che gli altri non hanno il coraggio o non riescono a far fuoriuscire: “Perché non mi ami?”
La divertente e amara sceneggiatura è un piacere per l'ascolto e la prima visione deve necessariamente essere seguita da altre per poter districare la tela di dettagli e riferimenti disseminati dal regista. La pellicola è una vera caccia al tesoro e Anderson invita lo spettatore a prendere parte al gioco.
Il richiamo iniziale di Moonrise Kingdom è però dovuto al gruppo di adulti, un bel cartellone di attori famosi che formano un quartetto stralunato e completamente incapace di indicare la retta via ai due fuggiaschi innamorati.
Ritroviamo qui un Bruce Willis decisamente in parte, unico poliziotto dell'isola, solitario e maliconico, unica forza adulta “quasi” positiva. Il suo antagonista è l'attore feticcio di Anderson, Bill Murray, nel ruolo del padre di Suzy, già calato da tempo nel ruolo di personaggio stralunato e avente un ruolo di facile esecuzione. Frances McDormand con il suo megafono, atto ad evidenziare ancor più l'incomunicabilità tra lei e il marito e la famiglia, aggiunge carattere alla madre di Suzy in piena crisi esistenziale, divisa tra il marito e l'amore (passione, semplice prurito?) per un secondo uomo. Conclude il quartetto Edward Norton, capo scout solo di aspetto. Se tutti gli adulti sono personaggi da evitare, il Capo Scout è quello più indegno di tale appellativo. Si riscatterà solo sul finale, nell'unico guizzo di vita, riappropriandosi del titolo da cui era stato destituito.
Solitamente conosciamo un Norton più che capace di dare spessore e autenticità ai personaggi interpretati. Qui al contrario l'attore riesce, nel senso più positivo del termine, ad annientarsi totalmente e a riflettere una nullità unica e desolante sul Capo Scout, elemento della troupe capace comunque di creare momenti esilaranti.

La favola di Anderson magari non riceverà alcun premio dalla giuria capitanata da Moretti (figuriamoci) ma viene largamente promossa da tutti coloro che per adesso hanno avuto la possibilità di poterla ammirare (la pellicola è uscita in Francia e tra qualche giorno uscirà anche negli Stati Uniti. Per l'Italia ancora la data di uscita resta un enigma)

Buona – prossima – visione



martedì 13 marzo 2012

TRA LE NUVOLE - UP IN THE AIR - 2009 by Jason Reitman

Una donna non sarà mai considerata allo stesso pari di un uomo.
Non è una bugia, è un dato di fatto.
Oggi ben tre persone, senza mezzi termini, hanno sottolineato la mia “bravura” a gestire casa e lavoro, viaggiando spesso. Praticamente hanno espresso “carinamente” un aperto giudizio negativo sulla mia vita.

Ripenso a “Tra le nuvole” (“Up in the Air” 2009) il film di Jason Reitman che dopo quel gioiello di “Juno” riprova il colpo con un film prevalentemente fondato sulla sensazione di solitudine e di quel poco di  misogina che pervade i viaggiatori. 
Qui il protagonista è George Clooney nelle vesti di un “addetto ai licenziamenti”, un impiegato speciale on-the-road o meglio in-the-air che vola da Stato a Stato per parlare con i dipendenti di tutte quelle società che, per mancanza di coraggio o per non addossarsi responsabilità, assoldano un esperto per fare un lavoro sporco.
George adora il suo lavoro, o meglio, il fatto che il suo lavoro gli permetta di volare via, di avere una vita fatta di incontri casuali e di accumulare sempre più punti sulla sua carta della compagnia aerea. E’ un metodico, uno che conosce tutti i trucchi per mettere in valigia quanto necessario per il viaggio, per scegliere quale fila al check-in è migliore di altre, per trovare gli alberghi migliori dove alloggiare. E’ una persona con una buona esperienza, che non desidera altro che stare fuori da quella parte di mondo con la quale prima della fine dovrà scontrarsi: la famiglia
Il conflitto più grande, il peggior periodo dell’anno lo incontra quando è costretto a tornare a casa per quei pochi giorni “terreni”. E quando il boss dell’azienda per cui lavora decide di tagliare i costi e di tenere gli impiegati a terra per svolgere il lavoro tramite il monitor di un computer, George vede il suo mondo crollare ed è costretto a rapportarsi con una ragazzina rampante, che si dimostra più tenera e indifesa di quanto non voglia dimostrare e che gli insegnerà a considerare la propria vita sotto un’altra dimensione. George affronta la vita, prova a lasciarsi andare all’amore e perde. La donna viaggiatrice ha meno scrupoli dell’uomo e lo lascia nuovamente solo davanti al cartellone degli orari dei voli.
L’uomo vola per riempire i vuoti della sua esistenza, la donna per ampliare le sue conoscenze ed espandere la sua esperienza. L’uomo vola se non ha famiglia, la donna vola incurante del fatto che ne abbia una.

E’ vero? E’ falso? E’ profondamente ingiusto. Punto.

Buona visione


giovedì 8 marzo 2012

LE FABULEUX DESTIN D'AMÉLIE POULAIN (2001 - Jean-Pierre Jeunet))

Difficile spiegare “Le Fabuleux destin d’Amélie Poulain”. Ricordo di averlo visto a un cinema d’essai, poltrona di galleria, parte destra della sala guardando lo schermo
Mi travolse, letteralmente. Lo vidi due, tre, quattro, cinque, forse sei volte durante lo stesso anno. Nello stesso cinema, la stessa settimana, durante le arene estive quando lo rincorrevo di comune in comune.
Poi uscì in VHS e lo comprai subito per rivederlo fino allo sfinimento. Poi il doppio DVD, ovviamente.
Non credo di averlo più rivisto da anni ma talvolta il DVD mi segue durante i miei viaggi all’estero e, chissà, probabilmente una sera prenderò l’occasione per rivivere lo stesso piacere che provai durante la prima visione.
Non so dire  cosa  10 anni fa  mi avesse realmente colpito del film. Ne ero completamente ammaliata. L’estate successiva siamo andati in vacanza a Parigi esclusivamente per effettuare il pellegrinaggio su tutti i luoghi del tournage.  All’epoca ero ancora totalmente avvolta nella visione adolescenziale e immatura della vita (pur avendo già superato con gli anni quel limite)  e rimasi affascinata da quella musica, dalle emozioni, da quel turbine di colori, di prevalenza rosso e verde. Una stanza del mio appartamento ha le pareti della stessa tonalità di verde semaforo e a mia cucina è rossa.  E chi se ne frega, riprendiamo a parlare del film.
Dal punto di vista tecnico la pellicola è un piacere per gli occhi. Il montaggio amalgama alla perfezione musica, rumori e fotogrammi. Le scene si susseguono briose come damigelle ad un giro di valzer. Gioia e malinconia, morte e vita, piacere e dispiacere. Tutto può mutare in un attimo, la vita può girare quando meno ce lo aspettiamo.
La notizia della morte di Lady D trasmessa alla televisione è subito collegata alla sorpresa di Amélie che lascia incautamente cadere il tappo della bottiglia di profumo, il quale rimbalza fino a toccare uno zoccoletto della pavimentazione, facendo scoprire ad Amélie un cimelio nascosto. Fine di Lady D. Siamo talmente presi da Amélie che non ci accorgiamo quanto feroce e cattiva sia questa scena. Appena trovato il cimelio Amélie si volta verso la televisione e con un gesto deciso sul telecomando ne annienta le immagini, come se volesse uccidere una seconda volta la sfortunata principessa. Non disturbarmi, non vedi che ho trovato una scatoletta di latta arrugginita con delle biglie di vetro all’interno?
Il mondo esterno non conta, esistiamo solo noi stessi.  Abbastanza feroce come scena, nonostante sia camuffata da poetica, sostenuta dal narratore che ne decanta l’emozione provata dalla ragazza nell’aprire quella scatoletta polverosa. E poi Amélie si dedicherà agli altri! Intanto una donna di nemmeno quaranta anni finiva la sua breve vita di falsa gloria.
Le emozioni di Amélie si intervallano continuamente, lasciando come finale la morale già proposta ne “L’Attimo Fuggente”: cogli l’attimo e goditi la vita.
Pellicola furbetta dunque, divertente e ben girata, ma veramente ben girata.  Il vero protagonista del film non è la fanciulla con le camiciette e le gonnelline a trine, vero must-have,   ma è il narratore (il grande André Dussoulier nella versione originale), calda voice-off che come rivolgendosi a un gruppo di bambini, narra la storia ad un pubblico pagante. Manca solo il bacio della buonanotte e la buona dormita è assicurata.
Ad ogni modo non possiamo negare che il personaggio di Amélie incanta, specialmente se non vediamo il film in versione originale. Solitamente la VO è migliore della versione doppiata, anche perché abbiamo la possibilità di gustare (laddove possiamo) le finezze e le differenze della lingua originale, la musicalità delle parole,  le sfumature impossibili da trasformare in un’altra lingua formata da un’altra cultura, con un altro bagaglio di parole e modi di dire. Conoscendo sufficientemente il francese ho apprezzato molto questa possibilità durante la visione di diverse pellicole (insuperabile “Tre uomini e una culla”ovvero “Trois Hommes et un Couffin”. Unico)
No, la magia non funziona per Amélie. La Tatou è carina al punto giusto e, ai tempi, era giovane al punto giusto per incarnare una giovane donna che racchiude in sé una miscela di sfacciataggine  adolescenziale e di timidezza matura. Era perfetta. Con la voce italiana, un incanto. Indovinello: cosa hanno in comune Valeria Golino e Audrey Tatou? Il fatto che se fatte recitare con un’altra voce riescono a essere meravigliose. Potrei dire la stessa cosa di Monica Bellucci ma purtroppo qui la falla non è solo nella voce, in questo caso è proprio la recitazione che manca. Conferma del fatto che non possiamo avere tutto nella vita. Tornando alla categoria delle attrici, ho sempre detestato Valeria Golino finché non ho visto “Frida”, dove recita appunto doppiata da un’altra donna con una voce vera e ho scoperto che è una grande attrice. Per la Tatou il percorso è stato inverso. Era meravigliosa finché non ho visto il film in VO. Credo di non essere arrivata alla fine, era insopportabile.
In Francia, come al solito, ne fecero un caso Nazionale. E quando mai? Ricordate “Les Visiteurs”? Jean Reno alle prime armi in un film demenziale. Un successone. Qualche anno fa è scoppiato giustamente “Bienvenue chez les Ch’tis” /“ Giù al Nord” di cui gli italiani hanno subito fatta propria l’idea trasportando i protagonisti al Sud Italia, dall’originale Nord Francese. Il film francese è di gran lunga superiore e decisamente divertente. In Francia sembravano pazzi durante il primo week-end di programmazione. Ultimo nella lista “The Artist” il film che, come osserva il “Nouvel Observateur” : “Ha vinto 5 Oscar perché gli americani non si sono accorti che il film era francese”. Adesso l’attore Jean Dujardin è dappertutto e i cugini d’Oltralpe stanno già, a mio avviso, superando la soglia del tollerabile. Ho recensito “The Artist” ed è un grande film. Però adesso basta.

“Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain”, per una favola da gustare in famiglia, tra crème-brûlée, nani viaggiatori, quadri di Renoir e grandi occhi neri. Spengete il pc e accendete il lettore DVD.

Buona visione


lunedì 20 febbraio 2012

IL VELO DIPINTO (THE PAINTED VEIL -2006) by John Curran

Seconda trasposizione cinematografica del romanzo di William Somerset Maugham,  questo elegante film è passato purtroppo inosservato dal grande pubblico

Storia d’amore, di orgoglio, vendetta e perdono, questa elegante pellicola narra la storia di una giovane donna che quasi per scommessa contro la famiglia sposa un serioso batteriologo che la porta a Shanghai. Quando il marito scopre la relazione che la moglie sta avendo con un altro uomo la costringe a seguirlo fino ad un remoto villaggio cinese dove è in corso una epidemia di colera. Presi entrambi dalla dolorosa situazione che li circonda dimenticheranno se stessi e riprenderanno ad amarsi.

La protagonista Kitty Fane, donna bella e irrequieta è l’australiana Naomi Watts che con il suo fisico minuto e i grandi occhi blu riesce a trasmettere tutta la sofferenza e l’inquietezza di una viziata e agiata figlia della media borghesia inglese che si ritrova improvvisamente faccia a faccia con la brutale realtà del mondo esterno. Kitty, personaggio non del tutto simpatico, pur cambiando radicalmente durante il racconto, mantiene il carattere forte e testardo che la contraddistingue dal resto dei componenti, rendendola il soggetto più umano (quindi più portato all’errore) e più vitale di tutti.

Il bostoniano Edward Norton, che nella versione originale sfoggia un accurato accento inglese, incarna il vendicativo, introverso e silente Dottor Walter Fane, dedito al lavoro e alla cura dei malati più che all’attenzione verso i rapporti familiari e personali. La sua compostezza nasconde tutto il dolore e il risentimento forse più per se stesso che per la moglie fedifraga, che troveranno via di sfogo solo nel finale insieme ai liquidi che il colera porta ad espurgare.

Regia elegante e discreta, accompagnata da una bellissima scenografia e da una colonna sonora vincitrice del Golden Globe, “The Painted Veil” è un film da scoprire, da rivalutare e da gustare non solo come film romantico, ma soprattutto come un cammino alla ricerca del proprio essere, che per rivelarsi totalmente deve fare i conti con una società dove l’essere “io” non trova spazio se non collegato ad un corale “altro”.

Dettaglio curioso: Liev Schreiber, l’attore che interpreta l’amante di Kitty Fane,  si innamorerà veramente di Naomi Watts durante le riprese e i due convoleranno a nozze poco dopo.

Buona visione

sabato 28 gennaio 2012

THE ARTIST - by Michel Hazanavicius




Parliamo di cinema, di quello vero, della sua nascita e del suo sviluppo
Parliamo di “The Artist”
L’idea del film non è nuova, abbiamo già avuto modo di veder rivivere sullo schermo vecchie glorie del cinema muto che crollano in un soffio come un castello di carte a causa dell’avvento del sonoro. Basta nominare “Viale del Tramonto” dove già nel 1950, ovvero a soli 20 anni di distanza dalla fine del muto, Billy Wilder impartiva lezioni di cinema (Sam Mendes ne sa qualcosa), descrivendo magistralmente gli anni del declino di una grande diva rinchiusa nel suo polveroso maniero. Insieme a Gloria Swanson si riconosce per un attimo un grande attore, forse il migliore secondo i più scrupolosi esegeti cinematografici: Buster Keaton. La “maschera” qui va una piccola comparsa ma sul suo volto di pietra ritroviamo tutto il dolore di una vita trascorsa e finita non troppo allegramente.
Buster Keaton era grande, tecnicamente parlando era di gran lunga superiore a Chaplin. E su questo non ci sono dubbi. I suoi film sono costruiti perfettamente, senza troppe divagazioni chapliniane o falsi moralismi. La pellicola è parte viva di un meccanismo senza falle, il linguaggio cinematografico ha trovato la sua prima e completa forma di vita nei film di Keaton. Il mio preferito è “Sherlock Junior – La palla nr. 13” nel quale il nostro eroe, operatore proiezionista in un cinema, si addormenta durante la trasmissione di un film e la sua “parte onirica” vi finisce dentro, in un gioco dove sogno e realtà sono un tutt’uno. Niente è veramente reale nei film di Keaton, gli oggetti non sono mai quello che sembrano ed ogni cosa deve essere analizzata da tutti i punti di vista per poter comprendere lo svariato utilizzo che ne possiamo trarre. E’ il più profondo degli insegnamenti: non giudicare mai le cose per come sembrano, prova a guardarle da un altro punto di vista.
La macchina da presa fa parte di questo gioco del vedo-non-vedo, allargando o restringendo il campo, illudendo continuamente lo spettatore. Non per niente Keaton è “nato” sotto il tendone di un circo e il suo nomignolo “Buster” gli è stato attribuito dal grande Houdini.
I film di Keaton, comici se visti superficialmente, sono tutt’altro. Il finale non è mai rosa, l’uomo deve sempre continuare a lottare per vivere e in un caso la pellicola si conclude con l’inquadratura di una pietra tombale.
Ho scoperto Keaton a 12 anni e il montaggio è diventato la mia passione. Non è un caso

Ritorniamo al punto di inizio: ieri sera ho visto “The Artist”.
Dicevo, l’idea non è esattamente fresca ma è audace se consideriamo che lo stesso Wilder ha avuto forti scontri e pressioni perché la produzione nel 1960 si opponeva con tutte le sue forze all’utilizzo del bianco e nero per una pellicola poi diventata uno dei massimi capolavori : “A qualcuno piace caldo”
Audace quindi l’utilizzo del bianco e nero e ancor più del muto. Il film è un “semi-sonoro” ci sono alcune parti in cui si odono i rumori, le parole vengono fuori nell’ultimo minuto, e la regina del film è colonna sonora.
Gli attori sono sconosciuti – almeno all’estero – ed  è veramente interessante scoprire che Jean Dujardin è un attore noto al pubblico francese per avere interpretato parti comiche. Un cabarettista, come si può notare dalla prestanza fisica, che ricorda in parte Gene Kelly (forte il riferimento a “Cantando sotto la pioggia” : il divo del muto che viene salvato grazie alla sua abilità danzante e quindi grazie al musical che fa risorgere l’America dopo il crac) e in parte Douglas Fairbanks (la bellezza malandrina, il baffetto e la triste fine)
In questo ruolo infatti ricopre la parte di star del cinema muto (Douglas Fairbanks appunto) che all’arrivo del sonoro e, evento da non sottovalutare, dal crac del 25 ottobre 1929, perde tutto e si lascia trascinare dall’orgoglio e dalla disperazione, vagando come un fantasma e nutrendosi solo di alcol.
Spesso ci dimentichiamo del 1929 ma il riferimento, specialmente se paragonato alla situazione attuale, fa pensare. E molto.
Il declino di un popolo, la fame, la disperazione, la disoccupazione. Abbastanza terrificante e purtroppo reale, mai come adesso.

Tornando a “The Artist” è da notare anche l’abilità del regista nello spargere riferimenti visivi durante lo svolgimento del film. Qualità fondamentale dato che stiamo parlando di un film muto. Scritte, specchi, ogni oggetto è utilizzato (secondo la lezione impartita dai grandi maestri di cui sopra) per poter innescare il grande potere della comunicazione e della comprensione. Senza parole. 
Il protagonista passeggia solo vicino ad una sala cinematografica dove si proietta “Lonely Star”. La protagonista, incarnazione perfetta della ragazza degli anni ’30, grintosa, giovane, bella e dinamica (vero motore del film), innamorata fin dal primo momento del decaduto divo, è all’insaputa di questo il suo “Angelo Custode”, altro titolo di un film in programmazione.
Il grande amico fedele del protagonista trova qui incarnazione in un animale anziché in un essere umano. Il cane che ricorda Milou di Tintin salva il nostro eroe un paio di volte, nel film che l’attore sta interpretando al principio e successivamente nella sua triste e decaduta “realtà".
 Ed ecco un altro  déjà-vu, quello del “cinema nel cinema”. Non è facile né scontato ma quando un regista riesce a far rivivere le emozioni di un “film nel film”, la meravigliosa sensazione di una vita che passa attraverso un pezzo di celluloide, allora il gioco è fatto e la magia prende forma. E’ come quando “sogniamo di sognare”, come “Alice nel Paese delle Meraviglie”,  come trovarsi in un libro di Italo Calvino o di Raymond Queneau. Siamo quello che siamo o siamo il nostro specchio?
Niente è più illusorio di uno schermo bianco e forse è per questo che amo tanto la parte retrostante.
Sconsiglio vivamente la visione a coloro che non amano il genere, che credono che tutto quello che non abbia colore e forti suoni non sia altro che un vecchio polpettone e che non guarderebbero mai un film che non sia datato inizialmente con il 2
Ne consiglio la visione a tutti gli altri, ricordando – se permettete – che il cinema ha preso forma in Francia nel lontanto 1895. Non me ne volete ma ripeterò sempre che il cinema  è indiscutibilmente francese. 

Buona visione



giovedì 19 gennaio 2012

GLI AMICI DI PETER (Peter’s Friends – 1992 – by Kenneth Branagh)



Non si può descrivere una riunione tra amici. Soprattutto se si tratta di amicizie di lunga data, di quelle che non si scordano in un momento.
In questo percorso nostalgico che Branagh ripercorre già dai titoli di testa si evince come i rapporti di amicizia, pur sgretolandosi in parte in seguito a scelte diverse di vita, siano così facili da ricollegare.
Basta un attimo, uno sguardo, una voce e tutto ritorna come prima, meglio di prima. Niente è cambiato anche se tutto è diverso, la memoria prende il sopravvento e le emozioni scorrono fresche come le acque di un ruscello che si fa strada tra i ciottoli.
E’ una sensazione unica ritrovare i vecchi amici. Stasera ne ho ritrovati alcuni e forse è per questo che mi sento al settimo cielo. Forse dovremmo farlo più spesso, o forse è solo il tempo che ci distanzia a fungere da vero collante. Non saprei. So solo che sono felice.
In questa deliziosa pellicola degli anni ’90 un gruppo di amici si ritrova nella grande casa di Peter (il “grande” – in ogni senso - Stephen Fry) per festeggiare l’ultimo dell’anno. Niente di più banale ma niente di più divertente, di esilarante di questa visione, soprattutto se le lacrime uscite per le risate alla fine cambiano registro.
Ognuno dei componenti ha un segreto da nascondere, un dolore, una sconfitta. I due giorni passati assieme porteranno al disfacimento di alcune coppie e gli ultimi naufraghi che rimarranno sulla “zattera” di Peter saranno i soli amici.
Alcune battute sono memorabili e abbiamo la possibilità di scoprire le doti recitative del Dottor House prima del “Dottor House” .
Branagh si distacca dall’amato mondo di Shakespeare per dar vita ad un dramma moderno con i toni leggeri e una sceneggiatura frizzante.
Il film è pieno di luoghi comuni: lo scrittore emigrato ad Hollywood, l’attrice bulimica, la repressa, la mangia-uomini, il bamboccio, l’omosessuale, la governante anziana e saggia, la madre iper-protettiva, la coppia che ha perso un figlio, la campagna inglese, la sera del 31 dicembre.
Il luogo comune è banale, ma qui la normalità specchia perfettamente la nostra realtà quotidiana.



Buona visione

lunedì 9 gennaio 2012

PAROLE PAROLE PAROLE (On connaît la chanson – Alain Resnais 1997)


Un grande “vecchio” del cinema francese, Monsieur Alain Resnais, a 75 anni ci regala questo piacevole film corale. Dimostrazione che l'età non conta per realizzare un buon film
Due sorelle, un paio di amici, mariti e amanti. Pochi personaggi per strutturati e una sceneggiatura senza fronzoli e dispersioni, che si alterna alle parole delle grandi canzoni francesi.
A differenza di altri film, dove la canzone viene riproposta (a volte anche pesantemente) quasi per la sua totalità, qui il brano viene saggiamente scomposto, intervallandosi per pochi secondi al dialogo in corso e creando una perfetta armonia.
I frequenti ma brevi pezzi musicali sembrano essere tasselli di un mosaico che lo spettatore non vede l'ora di ricomporre, per niente tediato da questi piccoli assaggi di piacevoli melodie d'antan.
Le esecuzioni, mimate dai protagonisti, sono tutte originali, da Chevalier a Eddy Mitchell, da Gainsbourg a Aznavour, quest'ultimo presente con “Et Moi dans mon coin” la cui ricchezza di vocabolario contenuta nel testo potrebbe far tranquillamente impallidire molte delle sceneggiature attuali.
L'unica che canta veramente è Jane Birkin, nella breve apparizione di moglie inglese dell'ansioso Nicolas

Le dinamiche che si sviluppano tra i rapporti personali e le caratteristiche dei personaggi stessi (come l'egoismo, l'ansia, la depressione, l'arroganza, la timidezza) sono l'elemento di maggiore interesse per il regista, che nelle poche riprese esterne non esita a girare con un campo stretto sui personaggi, sacrificando il lato cartolina di una Parigi qui posta solo come sfondo quasi casuale. Si riconoscono appena l'obelisco di Place de la Concorde o Rue de Castiglionne verso Place Vendôme, mentre la Tour Eiffel svetta dichiaratamente in maniera fasulla dalla finestra del grande, nuovo appartamento di Odile.
La vista, come la torre, alla fine è tutta una finzione. Quello che conta è dentro, dove nonostante le crepe dovute alle botte della vita, l'amore è il forte collante che aggiusta ogni cosa

domenica 1 gennaio 2012

VERTIGO


VERTIGO (1958) by Alfred Hitchcock

Sarò breve. 
Su Vertigo (“La donna che visse due volte” in italiano) sono stati scritti articoli e saggi da persone sicuramente molto più competenti di me sull’opera hitchcockiana.
Oggi per caso ne ho rivisto una scena durante la scarrellata di canali domenicale.
E’ la pellicola più impressionante, più dolorosa, più psicologicamente potente che Sir Alfred abbia mai girato.
E’ molto più agghiacciante di “Psyco”, in cui Norman Bates era un folle squilibrato, mentre in “Vertigo” Scottie è solo un semplice essere umano che insegue un grande amore impossibile  destinato ad una amara conclusione.
Non ho mai temuto niente facendo una doccia (a parte il fatto che ho la vasca da bagno), ma ho sentito un certo qual timore il mese scorso quando per caso mi sono trovata ad alloggiare in una missione spagnola: muri bianchi, tegole piccole e rosse, campanile largo e campana…E non vedevo il film da anni.
La sottile linea che divide la vita dalla morte, l’essere o non essere, il dubbio, la caduta mentale, la depressione. Pur non mostrando niente, al solito Mr Hitchcock riesce a creare disagio.
La pellicola include inoltre una delle più belle scene d’amore di tutti i tempi, dove la mdp filmava posta sulle rotaie  e i protagonisti, allo stesso tempo, erano su un pedistallo girevole. La doppia rotazione, le luci, la forte empatia trasmessa da un James Stewart quasi privo di favella, ne fanno uno dei pezzi cinematografici più belli di tutta la storia del grande schermo.
Come ho detto, sarò breve.
Non ho altro da aggiungere se non che ci troviamo davanti ad un capolavoro assoluto

Buona visione